Differenze in S100b tra persone affette da Schizofrenia

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 07 dicembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La proteina legante il calcio S100b è secreta dalle cellule gliali nel cervello ed è anche espressa dai melanociti. In concentrazioni nanomolari S100b si ritiene agisca come un fattore neurotrofico, mentre in concentrazioni micromolari si ritiene rifletta la presenza di danni al sistema nervoso centrale e sia indice di un processo infiammatorio in atto. Considerata da molti ricercatori un potenziale biomarker di danno traumatico cerebrale (TBI, da traumatic brain injury), è stato indagato l’innalzamento del suo livello in varie condizioni di patologia cerebrale. Una revisione meta-analitica dei dati tratti da vari studi riporta che i livelli di S100b sono significativamente più elevati in persone diagnosticate di schizofrenia da lungo tempo, ma anche in pazienti al primo esordio psicotico, se si paragonano i loro livelli della proteina legante il calcio a quelli di soggetti sani di controllo. Jessica Gannon e colleghi hanno notato che le differenze di origine etnica non sono mai menzionate in questi studi, che non forniscono così valori standard di base e patologici in funzione di una presumibile caratteristica genetica e di costituzione biochimica dipendente dalla varietà umana legata alla provenienza remota del gruppo antropico.

I ricercatori hanno allora deciso di approfondire questa caratteristica, anche sulla base di livelli particolarmente elevati di S100b riscontrati in Americani di origine africana. I risultati sono di sicuro interesse in prospettiva, considerato che il rilevo dei livelli di questa proteina con ogni probabilità entrerà nella routine clinica tra i biomarker di stato psicopatologico.

(Gannon J. M., et al. Racial Differences in S100b Levels in Persons with Schizophrenia. Psychiatric Quarterly – Epub ahead of print doi: 10.1007/s11126-019-09687-4, Nov 30, 2019).

La provenienza degli autori è la seguente: Western Psychiatric Hospital, University of Pittsburg Medical Center, Pittsburg, PA (USA); School of Medicine, University of Pittsburg, Pittsburg, PA (USA); Maryland Psychiatric Research Center, University of Maryland, School of Medicine, Baltimore, MD (USA); Institute of Human Behavior and Allied Sciences, New Delhi (India); Department of Pathology, School of Medicine, Johns Hopkins University, Baltimore, MD (USA).

Prima di sintetizzare i contenuti dello studio qui recensito, quale introduzione al problema della psicopatologia schizofrenica, riportiamo un brano tratto da una nostra recente pubblicazione:

“La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza praecox.

Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.

Lo stesso Eugen Bleuler[1], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.

A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata da un processo patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.

Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[2]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo eziologico per la febbre reumatica.

Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato dalle procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[3], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen), degenerazione vacuolare e liposclerosi.

Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali, si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni del cervello[4]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della “reazione maggiore”, contrapposta alla “reazione minore” costituita dai disturbi d’ansia”[5].

La famiglia di proteine S100 comprende più di 20 molecole, ciascuna delle quali è un piccolo polipeptide legante il calcio e agente come un interruttore attivato da Ca2+, che interagisce e modula l’attività di un gran numero di “bersagli”[6]. La S100B è particolarmente abbondante nel tessuto nervoso, dove si esprime nelle cellule della glia e particolarmente negli astrociti del sistema nervoso centrale e in quelle di Schwann dei nervi periferici, esercitando effetti sia intracellulari sia extracellulari. La S100B secreta, secondo la sua concentrazione, esercita effetti tropici o tossici. Nonostante un gran numero di studi condotti sui ruoli fisiologici di queste proteine, rimangono ancora molti interrogativi senza risposta. Intanto, il suo rilevo nel sangue e nel fluido cerebrospinale ha consentito di stabilire che un accresciuto livello di S100B, oltre che nel TBI, si verifica in alcune malattie neurodegenerative e nel melanoma maligno[7]. Si conosce la sua capacità di agire da soppressore dell’aggregazione dei peptidi β-amiloidi, ed è stata studiata la possibilità di impiegare i suoi livelli come marker di cefalee specifiche (migraine).

Qi e colleghi del Centro di Psichiatria Biologica di Pechino già dieci anni fa indagarono i livelli di S100B nel siero di pazienti schizofrenici da molti anni in trattamento con clozapina o con antipsicotici tipici, concludendo che i livelli della proteina legante il calcio erano elevati con entrambi i tipi di farmaco, e che fosse opportuno studiare la S100B sierica in un campione molto numeroso di pazienti schizofrenici non trattati con farmaci e di pazienti al primo episodio psicotico[8]. Nel corso degli anni, questi problemi sono stati affrontati e sono stati rilevati livelli sierici più alti della proteina anche in pazienti schizofrenici non sottoposti a trattamento farmacologico e in casi di primo episodio psicotico, comparati a volontari di controllo non affetti da patologie neurologiche o psichiatriche.

Jessica M. Gannon e colleghi hanno indagato i valori dei livelli sierici di S100b in Afro-Americani affetti da schizofrenia, ossia pazienti con un’origine etnica diversa da quella dei Caucasici che costituiscono la maggioranza della popolazione negli USA. Noi, a differenza degli autori dello studio, preferiamo non parlare di “razza”, non per l’adesione ad un galateo linguistico di rispetto formale, ma perché si tratta di un termine non corretto da un punto di vista biologico.

I ricercatori hanno rilevato le concentrazioni di S100b nel siero di 136 persone diagnosticate di psicosi schizofrenica e partecipanti a due differenti studi di ricerca che hanno adoperato lo stesso saggio ELISA (enzyme-linked immunoassay).

Gli afro-Americani hanno fatto registrare livelli di S100b notevolmente più alti (41.9 pg/ml + 62.2) dei Caucasici (24.9 pg/ml + 45.4) nel dataset combinato (Mann-Whitney U = 1307, p 0.001), così come nei due studi indipendenti. Non sono state rilevate differenze significative fra uomini e donne. Anche la valutazione di possibili correlazioni tra livelli di S100b e parametri demografici e clinici ha dato esito negativo.

Sulla base di questi dati, l’appartenenza etnica dovrà essere tenuta seriamente in considerazione nello studio e nell’interpretazione clinica dei livelli di questa proteina legante il calcio, soprattutto nell’ottica della definizione dei valori da adottare come marker di stato psicotico.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-07 dicembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Sulla storia delle origini della diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.

[2] Le nozioni storiche riportate di seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.

[3] Ai coniugi Vogt è intitolato un istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli. Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente superiori alla media.

[4] Sicuramente una parte non trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei punti di vista che resistevano da decenni.

[5] Note e Notizie 16-11-19 Trattamento cognitivo della schizofrenia.

[6] José Diaz-Romero & Dobrila Nesic, Journal Cell Physiol. AOP – doi: 10.1002/jcp.25720, 2016.

[7] Astrand R., et al. Methods Mol Biol. AOP – doi: 10.1007/978-1-4939-9030-6_42, 2019.

 

[8] Qi L. Y., et al. Increased serum S100B levels in chronic schizophrenic patients on long-term clozapine or typical antipsychotics. Neurosci Lett. 462 (2): 113-117, 2009.